Reformatio in peius in appello e regole di giudizio.

Le Sezioni Unite Penali della Suprema Corte  hanno affermato che è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero avverso assoluzione disposta all’esito di giudizio abbreviato non condizionato, affermi la responsabilità dell’imputato operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni.

È la sentenza n. 18620/2017 ( ud. 19/01/2017 – deposito del 14/04/2017) e sul sito della Corte si può leggere la MOTIVAZIONE

La questione rimessa alle Sezioni Unite può essere così enunciata: “Se, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento emessa all’esito del giudizio abbreviato per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, il giudice di appello che riforma la sentenza impugnata debba avere precedentemente assunto l’esame delle persone che hanno reso tali dichiarazioni“. 

Secondo la Cortte nel caso in esame non è in discussione il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la recente sentenza n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, secondo il quale la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d), CEDU, preclude in appello il ribaltamento di una sentenza di assoluzione senza una rinnovazione, anche di ufficio, dell’istruttoria dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado. Non è neanche in discussione il principio per cui l’affermazione di responsabilità dell’imputato in appello in assenza della suddetta rinnovazione, integra un vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. L’oggetto del contrasto riguarda, invece, la trasposizione di tali principi al giudizio abbreviato non condizionato.

Nel caso Dasgupta le Sezioni Unite hanno affermato che il generale obbligo di rinnovazione istruttoria, delineato con principale riguardo all’appello seguente a giudizio dibattimentale, deve trovare spazio anche a fronte dell’impugnazione dell’accusa avverso una sentenza assolutoria pronunciata a seguito di un giudizio abbreviato, ove questa sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice ed il cui valore sia stato posto in discussione dal pubblico ministero appellante. In tale caso, il giudice di appello deve porre in essere i poteri di integrazione probatoria adottabili anche in questo speciale rito (ex Corte cost., sent. n. 470 del 1991) ed è irrilevante che gli apporti dichiarativi siano stati tratti in primo grado solo da atti di indagine o da integrazioni probatorie a norma degli artt. 438, comma 5, o 441, comma 5, cod. proc. pen. Le Sezioni Unite hanno avuto cura di sottolineare che il dovere del giudice di appello, in vista di un ribaltamento del proscioglimento in condanna, di rinnovare, anche d’ufficio, l’esame delle fonti di prova dichiarative ritenute decisive in primo grado discende non tanto e non solo dalla necessità di una interpretazione adeguatrice rispetto ai principi della CEDU, come espressi dalla Corte di Strasburgo, ma, prima ancora, dal rispetto del criterio “generalissimo” ispiratore della decisione del giudice penale, che implica l’obbligo di escludere che possa reputarsi superato il dubbio ogniqualvolta, di fronte ad una diversa valutazione della prova dichiarativa che conduca ad un risultato peggiorativo nei confronti dell’imputato, il giudice di appello non abbia provveduto, in attuazione dei canoni di oralità e immediatezza, alla rinnovazione della istruttoria dibattinnentale dinanzi a sé, nei casi di difforme valutazione delle dichiarazioni ritenute decisive dal primo giudice ai fini dell’assoluzione. Risulta chiara la stretta correlazione tra il dovere di motivazione rafforzata da parte del giudice della impugnazione in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado, il canone “al di là di ogni ragionevole dubbio”, il dovere di rinnovazione della istruzione dibattimentale e i limiti alla reformatio in peius. In questa prospettiva è stata sostenuta, quale logica conseguenza del percorso ermeneutico sopra indicato, l’applicabilità di tali principi anche nel caso di impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione emessa nell’ambito del giudizio abbreviato, ove questa sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice e il cui valore sia posto in discussione dall’organo dell’accusa impugnante. Alla inequivoca presa di posizione delle Sezioni unite Dasgupta si oppone altro orientamento, sia precedente (v. Sez. 2, n. 33690 del 23/05/2014, De Silva, Rv. 260147; Sez. 2, n. 40254 del 12/06/2014, Avallone, Rv. 260442; Sez. 2, n. 32655 del 15/07/2014, Zanoni, Rv. 261851; Sez. 3, n. 11658 del 24/02/2015, P, Rv. 262985; Sez. 3, n. 38786 del 23/06/ 2015, U., Rv. 264793) sia successivo (Sez. 3, n. 43242 del 12/07/2016, C., Rv. 267626), che afferma, invece, che il giudice di appello, qualora il primo grado si sia svolto con rito abbreviato non condizionato, non è tenuto alla rinnovazione dell’istruzione. La sentenza Sez. 3 n. 43242 del 2016 si confronta con il passaggio contenuto nella Dasgupta circa l’obbligo di rinnovazione istruttoria anche in sede di giudizio abbreviato d’appello, osservando innanzi tutto che il caso esaminato dalle Sezioni Unite era stato trattato, nel merito, con l’ordinario rito dibattinnentale; di modo che doveva essere qualificata come obiter dictum (\’ l’affermata estensione del dovere di rinnovazione della prova dichiarativa anche all’ambito del giudizio d’appello abbreviato non condizionato. Un obiter dictum – secondo la Terza Sezione – non coerente con il ragionamento delle Sezioni Unite, dal momento che il dovere di riascolto in contraddittorio del dichiarante, sintonico con le forme del rito ordinario, doveva ritenersi invece dissonante rispetto al rito abbreviato non condizionato: essendo illogico obbligare il giudice di appello a ricondurre nei canoni propri di un giudizio dibattimentale il rito speciale attraverso un contatto diretto con la fonte della prova dichiarativa che il giudice di primo grado non ha avuto per espressa scelta dello stesso imputato. L’argomento adoperato dalle Sezioni Unite per superare la contraddizione – e cioè l’assunto per cui il dovere di attivare l’ascolto diretto del dichiarante non deriva tanto da un obbligo convenzionale, essendo piuttosto la conseguenza del canone “generalissimo” del necessario superamento del “ragionevole dubbio” – è giudicato non risolutivo, perché “proverebbe troppo”. Se per condannare in rito abbreviato occorresse l’acquisizione orale della prova, ciò verrebbe a essere necessario anche in primo grado, tranne nell’ipotesi in cui la sentenza sia assolutoria, demolendo così la struttura del rito, pur mantenendone una conseguenza in termini sanzionatori che più non avrebbe logica premiale. Né la negoziazione della verità giuridica come esercizio di un potere dispositivo sulle modalità per pervenirvi è riconducibile a una criticità costituzionale, costituendo, come si evince dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, una forma peculiare di esercizio del diritto di difesa, rimessa alla scelta del titolare del diritto, il cui carattere di libertà è, dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 in poi, particolarmente elevato perché non condizionabile dagli altri soggetti processuali. Secondo la Terza Sezione, è da escludere un dovere di “decartolarizzazione” in capo al giudice d’appello nel rito abbreviato, da adempiersi per legittimare una reformatio in peius, laddove i limiti della “cartolarizzazione” possono essere già fronteggiati su impulso dell’imputato con la species del rito condizionato ad integrazione probatoria, conservando comunque il giudice di appello nel rito abbreviato il potere – non l’obbligo -, se lo ritiene assolutamente necessario ai fini decisori, di assumere d’ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite agli atti. 4. Ritengono le Sezioni Unite di confermare l’orientamento già espresso con la sentenza Dasgupta, che ha esteso anche al giudizio abbreviato la regola in base alla quale, se il pubblico ministero propone appello verso una sentenza di proscioglinnento per motivi relativi alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice di appello deve disporre la rinnovazione dell’esame dei dichiaranti. 5. La conclusione rappresenta il convincente approdo interpretativo della elaborazione giurisprudenziale sul canone “oltre ogni ragionevole dubbio”, inserito nel comma 1 dell’art. 533 cod. proc. pen. dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, ma già individuato in precedenza dalla giurisprudenza quale inderogabile regola di giudizio. La sentenza Dasgupta fa perno su detta regola di giudizio, che assume veste di “criterio generalissimo” nel processo penale, direttamente collegato al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Di questo fondamentale principio di civiltà, cardine dei moderni ordinamenti processuali, era già permeata la giurisprudenza di legittimità prima che la regola fosse formalizzata nel 2006 (v. la netta affermazione sul punto in Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139) e prima ancora delle decisioni della Corte EDU sul tema della reformatio in peius. Attraverso tale elaborazione, si è evidenziato che il canone “oltre ogni ragionevole dubbio” pretende che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare aperti residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza. Ciò significa, come evidenziato nella sentenza Dasgupta, che per riformare un’assoluzione non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla lettura del primo giudice, occorrendo invece “una forza persuasiva superiore”, capace, appunto, di far cadere ogni ragionevole dubbio, perché, mentre la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, bensì la mera non certezza della colpevolezza.

La regola “oltre ogni ragionevole dubbio” pretende dunque (ben al di là della stereotipa affermazione del principio del libero convincimento del giudice) percorsi epistemologicamente corretti, argonnentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standards conclusivi di alta probabilità logica, dovendosi riconoscere che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova.In questa prospettiva risulta chiara la stretta correlazione, dinamica e strutturale, tra tale regola basilare e le coesistenti garanzie proprie del processo penale: presunzione di innocenza dell’imputato, onere della prova a carico esclusivo dell’accusa, obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e giustificazione razionale delle stesse.

Tali coordinate regolatrici del giusto processo sono state assunte a fondamentale criterio ispiratore della decisione delle Sezioni Unite Dasgupta, nella quale il riferimento a una “simmetria” operativa nell’assunzione e valutazione delle prove dichiarative decisive (in base alla quale è necessario, nel ribaltamento del giudizio di assoluzione, la rinnovazione anche d’ufficio della istruttoria dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni decisive ai fini dell’assoluzione) è stato con ogni evidenza rapportato al giudizio ordinario – con riguardo al quale è stata sottolineata l’esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in questione il principio del ragionevole dubbio, replichi l’andamento del primo giudizio, fondandosi su prove direttamente assunte – ed ha dunque parziale rilievo ai fini del tema più generale del superamento del “ragionevole dubbio”. L’assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado travalica ogni pretesa di simmetria. Essa, implicando l’esistenza di una base probatoria che induce quantomeno il dubbio sulla effettiva valenza delle prove dichiarative, pretende che si faccia ricorso al metodo di assunzione della prova epistennologicamente più affidabile; sicché la eventuale rinuncia dell’imputato al contraddittorio nel giudizio di primo grado non fa premio sulla esigenza di rispettare il valore obiettivo di tale metodo ai fini del ribaltamento della decisione assolutoria. Perché, insomma, l’overturning si concretizzi davvero in una motivazione rafforzata, che raggiunga lo scopo del convincimento “oltre ogni ragionevole dubbio”, non si può fare a meno dell’oralità nella riassunzione delle prove rivelatesi decisive. La motivazione risulterebbe altrimenti affetta dal vizio di aporia logica derivante dal fatto che il ribaltamento della pronuncia assolutoria, operato sulla scorta di una valutazione cartolare del materiale probatorio a disposizione del primo giudice, contiene in sé l’implicito dubbio ragionevole determinato dall’avvenuta adozione di decisioni contrastanti. Invero, anche nell’ambito del giudizio abbreviato l’imperativo della motivazione rafforzata è destinato ad operare in tutta la sua ampiezza attraverso l’effettuazione obbligatoria di una istruttoria – quantunque non espletata nel giudizio di primo grado – e con l’assunzione per la prima volta in appello di una prova dichiarativa decisiva.L’esigenza di una giustificazione legale e razionale della decisione non può infatti retrocedere di fronte ad una pretesa esigenza di automatica “simmetria” operativa tra primo e secondo grado di giudizio (già confutata, proprio con riferimento ai differenti poteri del giudice di appello rispetto a quello di primo grado nell’ambito del giudizio abbreviato, da Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203427), perché lo scopo del giudizio, sia esso ordinario o abbreviato, è, appunto, il superamento di “ogni ragionevole dubbio”. E’ dunque il rispetto della decisione liberatoria che, rafforzando significativamente la presunzione di innocenza, impone di riassumere le prove decisive impiegando il metodo che, incontestabilmente, è il migliore per la formazione e valutazione della prova, caratterizzato dall’oralità e dall’immediatezza attraverso l’apprezzamento diretto degli apporti probatori dichiarativi, rivelatisi decisivi per il proscioglimento in primo grado, da parte di un giudice di appello che avverta dubbi sul fatto che a un tale esito corrisponda la giusta decisione. Sarebbe infatti difficilmente comprensibile come, di fronte ad un risultato dichiarativo cartolare, che caratterizza il giudizio abbreviato non condizionato, il giudice di appello – al quale, come osservato dalla sentenza Dasgupta, non può certo essere riconosciuta in termini ordinamentali una “autorevolezza maggiore” rispetto a quello di primo grado, ma solo una diversa funzione – possa pronunciare, in riforma di quella assolutoria, una sentenza di condanna espressione del “giusto processo” e perciò “equa”, fondata solo sul rapporto mediato che esso ha con le prove, senza il diretto esame delle fonti dichiarative. Risulta evidentemente recessiva, rispetto a una simile evenienza, la circostanza che sia stata l’opzione dell’imputato verso il giudizio abbreviato a consentire il giudizio a suo carico allo stato degli atti, dovendo invece prevalere l’esigenza di riassumere le prove decisive attraverso il metodo epistemologicamente più appagante, quello orale ed immediato, che caratterizza la formazione della prova nel modello accusatorio. 8. L’avvenuta “costituzionalizzazione del giusto processo” induce, inoltre, a configurare il giudizio di appello che abbia ribaltato una sentenza assolutoria, pur se a seguito del rito abbreviato, un “nuovo” giudizio, in cui il dubbio sull’innocenza dell’imputato può essere superato, come già osservato, solo impiegando il metodo migliore per la formazione della prova. L’appello in tal caso non si risolve, infatti, in una mera sede di valutazione critica, in fatto e in diritto, dei percorsi motivazionali del giudice di primo grado, ma in un giudizio “asimmetrico” rispetto a quello di primo grado nel quale è comunque necessaria un’integrazione probatoria, non più da considerare in termini di eccezionalità rispetto ad un primo grado di giudizio connotato dalla presunzione di regolare esaustività dell’accertamento. 9. Quanto esposto vale tuttavia (sia per il giudizio ordinario che per il giudizio abbreviato) nei casi in cui di differente “valutazione” del significato della prova dichiarativa si possa effettivamente parlare: non perciò quando il documento che tale prova riporta risulti semplicemente “travisato”, quando, cioè, emerga che la lettura della prova sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato) e, perciò, non può sorgere alcuna esigenza di rivalutazione di tale contenuto attraverso una nuova audizione del dichiarante. 10. Tirando le fila di quanto finora considerato, deve affermarsi che un accertamento cartolare in grado di appello a seguito di impugnazione del pubblico ministero di sentenza di proscioglimento è incompatibile con il superamento del limite del “ragionevole dubbio”, posto che una condanna che non si è nutrita dell’oralità nell’acquisizione della base probatoria confligge – nella evenienza precisata – con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.11. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto: “È affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’, di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni”. 12. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi nel caso di riforma della sentenza assolutoria agli effetti civili, emessa all’esito di giudizio abbreviato, a seguito di accoglimento dell’appello proposto dalla parte civile (v. sentenza Dasgupta, Rv. 267489). 13. Discende da quanto osservato la fondatezza del ricorso. Nel caso in esame, la difesa dell’imputato ha rilevato un difetto di motivazione della sentenza di condanna di secondo grado con la quale la Corte di appello di Roma ha ribaltato, senza alcuna istruzione probatoria, il proscioglinnento emesso dal giudice dell’udienza preliminare in funzione di organo del giudizio abbreviato, che pure aveva deciso in assenza di contributi cognitivi orali, sulla semplice base delle indagini in atti. La censura è fondata, tenuto conto che la Corte di appello ha posto a fondamento del giudizio di condanna la diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, del tutto antitetica rispetto a quella effettuata dal giudice di primo grado, che era pervenuto ad un giudizio assolutorio sull’assunto che tali dichiarazioni fossero rimaste vaghe o poco utilizzabili soprattutto in relazione alla reale entità dell’interesse praticato: valutazione, questa, decisiva ai fini dell’affermazione di responsabilità e adottata senza procedere alla rinnovazione dell’esame delle fonti dichiarative. Si impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che procederà a nuovo giudizio, previo esame delle fonti dichiarative ritenute

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