Copia di atto inesistente e reato di falsità materiale.

Le Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione con Sentenza n. 35814 /2019 (ud. 28/03/2019 – deposito del 07/08/2019) hanno affermato che la formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale.

Si legge nella motivazione: “Rileva al riguardo la Sezione rimettente che, secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, cui aderisce anche la sentenza impugnata, la mera utilizzazione della fotocopia contraffatta di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale in assenza di determinate condizioni, individuate nella presenza di requisiti di forma e di sostanza tali da far apparire l’atto in fotocopia come il documento originale o come la copia autentica di esso. 4.2. Un diverso orientamento interpretativo, seguito da entrambi i ricorrenti, ritiene integrato il reato di falso nel caso in cui si verifichi la formazione di un atto presentato come riproduzione fotostatica di un documento in realtà inesistente, del quale, invece, s’intendano attestare artificiosamente l’esistenza e gli effetti probatori. 4.3. Delineati in tal modo i tratti salienti dei due orientamenti, l’ordinanza di rimessione ha sottolineato il fatto che essi si pongono in netto contrasto nel caso in cui la fotocopia di un atto inesistente non sia utilizzata facendola figurare come originale o come copia autentica di esso, ma sia presentata come tale in luogo dell’originale, onde dimostrare, attraverso la sua produzione, l’esistenza dell’originale stesso, atteso che, secondo la prima opzione ermeneutica, è necessario, al fine di ritenere la sussistenza del reato, che nella copia vi siano particolari attestazioni o che il documento sia confezionato in modo tale da risultare dimostrativo dell’esistenza dell’atto, mentre secondo l’altro indirizzo è sufficiente l’utilizzazione della copia fotostatica quale falsa rappresentazione dell’esistenza dell’atto originale“.

La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è riassumibile nei seguenti termini: «se la formazione di una copia di un atto inesistente integri o meno il reato di falsità materiale». Sul tema della formazione della fotocopia di un atto pubblico inesistente, utilizzata come tale dal soggetto attivo della condotta, si registrano due diversi orientamenti giurisprudenziali.

Secondo un primo indirizzo interpretativo la mera utilizzazione della fotocopia contraffatta non integra il reato di falsità materiale in assenza di determinate condizioni, ossia di requisiti di forma e sostanza tali da farla apparire come il documento originale o come la copia autentica dello stesso (ex multis, Sez. 5, n. 2297 del 10/11/2017, dep. 2018, D’Ambrosio, Rv. 272363; Sez. 5, n. 8870 del 09/10/2014, Felline, Rv. 263422; Sez. 5, n. 10959 del 12/12/2012, dep. 2013, Carrozzini, Rv. 255217; Sez. 5, n. 42065 del 03/11/2010, Russo, Rv. 248922; Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007, dep. 2008, Favia, Rv. 239112). Entro tale prospettiva si fa riferimento, in particolare, all’esigenza che la fotocopia risulti idonea a documentare l’effettiva esistenza del documento originale, individuando in concreto tale condizione sulla base della rilevata presenza di attestazioni formali che la facciano figurare come estratta da un documento originale, riconducendola di fatto alla categoria delle copie autentiche (Sez. 5, n. 2297 del 10/11/2017, dep. 2018, D’Ambrosio, cit. e Sez. 5, n. 8870 del 09/10/2014, Felline, cit.), laddove la mancanza di attestazioni confermative dell’autenticità della copia è ritenuta tale da escludere di per sé la ravvisabilità del reato (Sez. 5, n. 10959 del 12/12/2012, dep. 2013, Carrozzini, cit.). Siffatto orientamento prende le mosse dal presupposto secondo cui la copia di un atto assume il carattere di documento solo in seguito alla pubblica autenticazione del contenuto dell’atto, con il logico corollario secondo cui, tutelando le norme sul falso materiale l’autenticità degli atti in relazione al loro contenuto e/o alla loro provenienza, la falsificazione di una copia priva di attestazione di autenticità non dà luogo ad un illecito penale, in quanto la contraffazione viene, in tal caso, effettuata ex novo su un oggetto cui sono attribuite le sembianze di ciò che lo stesso non è nella realtà (Sez. 5, n. 11185 del 05/05/1998, Detti, Rv. 212130; Sez. 5, n. 4406 del 04/03/1999, Pegoraro, Rv. 213125). In talune decisioni, inoltre, si pone in rilievo l’esigenza che «la formazione della fotocopia sia idonea e sufficiente a documentare nei confronti dei terzi l’esistenza di un originale conforme» (Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007, dep. 2008, Favia, cit.), richiedendosi comunque la presenza di connotazioni ulteriori rispetto all’esibizione della fotocopia di un atto inesistente, in sé ritenuta inidonea per la configurabilità del reato. Ne discende che la formazione ad opera del privato di una falsa fotocopia di un documento originale inesistente, presentata come tale e priva di qualsiasi attestazione che confermi la sua originalità o la sua estrazione da un originale esistente, non integra alcuna ipotesi di falso documentale, anche nell’eventualità in cui la stessa abbia, in astratto e per la sua verosimiglianza, attitudine a trarre in inganno i terzi, potendo il suo uso essere, in tal caso, sanzionato eventualmente a titolo di truffa. L’offesa al bene tutelato, dunque, ricorre soltanto nell’ipotesi in cui la falsificazione riguardi un documento provvisto di contenuto giuridicamente rilevante, dotato cioè della specifica funzione probatoria assegnatagli dall’ordinamento, e la riproduzione sia fatta passare come prova di un atto originale che non esiste, del quale intende attestare artificiosamente l’esistenza e i connessi effetti probatori, non potendo quella funzione essere riconosciuta ex se alla mera riproduzione di un documento originale, atteso che la copia fotostatica, se presentata come tale e priva di qualsiasi attestazione che ne confermi l’autenticità, non può mai integrare il reato di falso, anche nel caso di inesistenza dell’originale, essendo per sua natura priva di valenza probatoria (Sez. 5, n. 3273 del 26/10/2018, dep. 2019, Buccella, Rv. 274628).

Un diverso orientamento ritiene che il reato di falso è integrato dalla formazione di un atto presentato come riproduzione fotostatica di un documento in realtà inesistente, del quale si intendano viceversa attestare l’esistenza e gli effetti probatori (ex multis, Sez. 5, n. 4651 del 16/10/2017, dep. 2018, Lisca, Rv. 272275; Sez. 5, n. 40415 del 17/05/2012, Della Peruta, Rv. 254632; Sez. 6, n. 6572 del 10/12/2007, dep. 2008, Capodicasa, Rv. 239453; Sez. 5, n. 33858 del 24/04/2018, Manganaro, Rv. 273629). La linea ermeneutica tracciata da tali decisioni si fonda essenzialmente su due ordini di argomentazioni: a) da un lato, l’esibizione di una fotocopia recante il contenuto apparente di un atto pubblico implica la falsa formazione di tale atto al fine di trarne la copia; b) dall’altro, non si ritiene necessario, ai fini della punibilità della condotta di falso, un intervento materiale su un atto pubblico, essendo invece sufficiente, perché il fatto sia lesivo della pubblica fede, che con la falsa rappresentazione offerta dalla fotocopia l’atto appaia, contrariamente al vero, esistente. La falsità, all’interno di tale diversa opzione esegetica, non è integrata tanto dalla modificazione di una realtà probatoria preesistente, che in concreto può anche difettare per l’inesistenza o il mancato rinvenimento del documento originale, quanto, piuttosto, dalla mendace rappresentazione di tale realtà (la fotocopia), che risulta intrinsecamente idonea a ledere il bene giuridico tutelato, costituito dalla pubblica affidabilità di un atto proveniente dall’amministrazione. Al riguardo non manca di soggiungersi, infatti, che una fotocopia presentata come prova di un originale inesistente, del quale intenda artificiosamente attestare l’esistenza e i connessi effetti probatori, integra una falsità penalmente rilevante ai sensi dell’art. 476 cod. pen. (Sez. 6, n. 6572 del 10/12/2007, dep. 2008, Capodicasa, cit.; Sez. 5, n. 14308 del 19/03/2008, Maresta, Rv. 239490; Sez. 5, n. 24012 del 12/05/2010, Pezone, Rv. 247399). Per la sussistenza del delitto di falsità materiale, dunque, non è necessario che vi sia un intervento materiale su un atto pubblico, ma è sufficiente che, attraverso la falsa rappresentazione della realtà veicolata dalla fotocopia, tale atto appaia sussistente, con la conseguente lesione recata al bene della fede pubblica, mentre nessun rilievo assume la mancata attestazione di autenticità allorché la copia falsificata abbia l’apparenza di un originale e sia utilizzata come tale. Ne discende, ancora, che ove la falsa fotocopia esibita risulti divergente, in uno o più punti, dall’originale, essa acquisisce un’evidente capacità decettiva autonoma (Sez. 5, n. 24012 del 12/05/2010, Pezone, cit.). Occorre, peraltro, che la fotocopia sia stata realizzata con modalità tali da creare un’apparente esistenza dell’atto pubblico riprodotto (Sez. 5, n. 5452 del 18/01/2018, Peroni), dal momento che sono le concrete circostanze dell’utilizzo a far presumere la conformità della fotocopia all’originale e ad indurre a ritenere che l’atto pubblico esista (Sez. 5, n. 40415 del 17/05/2012, Della Peruta, cit.).

I due orientamenti indicati, come rilevato nell’ordinanza di rimessione, si pongono in contrasto su un profilo strettamente delimitato, ma determinante, per il caso in cui la fotocopia di un atto inesistente non sia utilizzata facendola figurare come originale e come copia autentica dello stesso, ma venga semplicemente presentata come tale in luogo dell’originale al fine di dimostrarne, con tale sola produzione, l’esistenza. Non si ritiene, invece, sussistente il contrasto nelle ipotesi in cui la falsa fotocopia, ancorché priva di attestazione di conformità all’originale, sia presentata «… con l’apparenza di un documento originale, atto a trarre in inganno i terzi di buona fede…» (così, testualmente, Sez. 5, n. 8870 del 09/1.p/2014, dep. 2015, Felline, cit.), ritenendosi, anche da parte del primo orientamento, che in tale eventualità il reato sia configurabile.

Nell’alveo delle falsità materiali si suole ricondurre sia la condotta di contraffazione che quella di alterazione, anche se il legislatore, come è noto, non fornisce una definizione legale di tali concetti, peraltro equivalenti ai fini della tipicità del fatto. I tipi delle condotte punibili descritte nella norma di cui all’art. 476 cod. pen. riguardano la «non genuinità» dell’atto e possono avere ad oggetto la formazione, in tutto o in parte, di un atto falso ovvero l’alterazione di un atto vero. Nella prima modalità di lesione rientra la cosiddetta contraffazione di provenienza, consistente nel confezionamento di un documento che si caratterizza per la discordanza tra autore reale ed autore apparente e che determina un inganno sull’identità, avendo quale oggetto precipuo la sottoscrizione apposta sul supporto documentale.Vi è poi la contraffazione di data e di luogo, le quali, facendo parte integrante della rappresentazione documentale, contribuiscono ad individuare la provenienza topica e cronologica del documento. Alla fenomenologia della falsità materiale si ritiene ascrivibile anche la documentazione di un atto inesistente, che si verifica allorquando l’atto proviene da un soggetto competente e risulta, dunque, materialmente genuino, ma non esistono i presupposti per la sua formazione, come nel caso del cancelliere che forma un verbale di udienza mai celebrata. Con la condotta di formazione, poi, si può far venire ad esistenza un atto che nasce, viene cioè formato, non genuino, in tutto o nella parte interessata dalla contraffazione, mentre nell’alterazione la condotta cade su di un atto preesistente ed originariamente genuino, che l’autore del falso manipola in vario modo, mediante aggiunte, sostituzioni, soppressioni, ecc. Nel primo caso, dunque, la falsità può riguardare l’esistenza stessa dell’oggetto documentato e l’autore – reale – fa apparire come esistente un atto che in realtà non è stato mai formato. La condotta di contraffazione, infatti, consiste nel porre fisicamente in essere un atto o parte di un atto che non preesisteva, laddove l’alterazione si verifica quando il documento subisce una modificazione di qualsiasi specie (aggiunte, cancellature, sostituzioni, ecc.), apportatavi dopo la sua definitiva formazione, compresa quella eventualmente apposta dall’autore del documento senza esservi autorizzato dagli aventi diritto. Ne discende, in altri termini, che il falso materiale può realizzarsi creando l’esistenza documentale dell’oggetto (tipo di condotta corrispondente all’espressione normativa contenuta nell’art. 476 cod. pen. «forma in tutto o in parte un atto falso») ovvero modificando un atto genuino preesistente (secondo l’altra espressione, «altera un atto vero»). La formazione di un falso, come su accennato, è totale quando investe l’atto nella sua interezza, è parziale se ad una parte genuina se ne aggiunge illegalmente un’altra. La contraffazione, dunque, sussiste anche nell’ipotesi in cui, pur non riscontrandosi alcuna divergenza tra autore apparente ed autore reale, la falsità investa l’atto intero nella sua realtà fenomenica, facendosi apparire esistente un atto in realtà mai formato (Sez. 5, n. 6754 del 01/06/1984, Fogu, Rv. 165367). Nessuna rilevanza, invece, può assegnarsi al mezzo in concreto usato per porre in essere la condotta, che può essere realizzata anche dallo stesso autore apparente del documento, avvalendosi materialmente degli strumenti più vari, ivi compresa la formazione di una falsa copia.

Ora, nella diversa ipotesi del rilascio di copia autentica di un originale inesistente, prevista dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 478 cod. pen., si ritiene che il falso sia materiale perché il pubblico ufficiale o il pubblico impiegato ha inventato un originale inesistente di cui la falsa copia autentica costituisce la prova: vale a dire che il falso è materiale in quanto il documento non doveva sorgere. Se la legge, però, ha ravvisato una ipotesi di falsità materiale nella simulazione di copia autentica di originali inesistenti, a maggior ragione deve ritenersi, come si è osservato in dottrina, che integri un falso materiale la formazione di un documento pubblico relativo ad un rapporto avente importanza giuridica che non è mai esistito. Interpretazione, questa, che trae sostegno dalle indicazioni desumibili dai lavori preparatori del codice penale, ove, per differenziare la falsità materiale dalla falsità ideologica si è prospettato il caso del presidente di un consiglio di amministrazione di una società commerciale il quale redige il verbale di una riunione di tale consiglio che non è in realtà avvenuta, concludendosi nel senso che in tale ipotesi deve ravvisarsi una condotta di falsità materiale perché costui non poteva redigere il verbale di una riunione inesistente (Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. IV, parte 3, pag. 301).

Le condotte di falsità materiale descritte nell’art. 476 cod. pen., inoltre, non presuppongono la corrispondenza dell’atto ad un preesistente dato naturalistico, poiché di tale ulteriore elemento non v’è alcuna traccia nella disposizione normativa. Nella struttura della condotta, infatti, non figurano termini di riferimento, siano essi un elemento naturalistico, e cioè la realtà da riprodurre nell’atto, o un titolo che richiede un atto di un determinato tenore, per definirlo falso. Nelle ipotesi di falsità materiale, dunque, non è un elemento essenziale la difformità dal vero, poiché la rispondenza ad un dato naturalistico che dovrebbe essere riprodotto nell’atto non è un requisito compreso nella descrizione normativa e non assume anzi alcuna rilevanza, tanto che si ritengono falsità materiali anche le modifiche o le aggiunte apportate in un atto pubblico dopo che lo stesso è stato definitivamente formato, ancorché il soggetto abbia agito per ristabilire la verità effettuale, salva l’ipotesi in cui esse si risolvano in mere correzioni di errori materiali o integrazioni che, lungi dal modificarne l’elemento contenutistico, siano invece dirette ad un completamento essenziale del relativo procedimento di formazione (ex multis, Sez. 5, n. 9840 del 16/01/2013, Caminiti Perotti, Rv. 255224). Le falsità materiali possono incidere su ogni tipo di atti, non soltanto su quelli precostituiti a fini probatori ed istituzionalmente indirizzati a provare la verità dei fatti in essi attestati. Nelle norme sulle falsità materiali, come posto in rilievo dalla dottrina, non solo non si rinviene alcun riferimento al fatto che l’atto falsificato deve esser destinato alla prova, ma v’è un’assoluta indifferenza rispetto al tipo di documento preso di mira dal comportamento criminoso. Essenziale è invece la natura dell’atto per la configurabilità di una falsità ideologica, dove l’autore riceve o forma un atto destinato a provare la verità dei fatti in esso attestati e il disvalore dell’azione è dalla legge indicato nella violazione dei doveri di fedeltà inerenti all’esercizio della pubblica funzione di certificazione, violazione che consiste, appunto, nello sviamento dell’atto dal suo scopo istituzionale, facendovi cioè risultare fatti diversi da quelli che invece dovevano esservi legittimamente raccolti. Siffatte considerazioni, peraltro, assumono ancor maggiore pregnanza ove si ponga mente, sotto altro ma connesso profilo, alle implicazioni sottese all’introduzione, nel tessuto codicistico, della nozione di documento informatico (ex art. 491-bis cod. pen.) e alla possibilità stessa di individuare un “originale” di riferimento con un definitivo contenuto comunicativo: individuazione che può in effetti diventare particolarmente difficoltosa in considerazione della caratteristica tecnica — intrinseca alla tipologia dei dati sottoposti a, o risultanti da, processi di elaborazione informatica — consistente nella costante modificazione, sostituzione e connessione con altri dati, senza che tale trattamento incida sulla materialità del documento. Non solo, ma anche la stampa del risultato finale dell’elaborazione su un supporto cartaceo non garantisce, con la sua funzione di “cristallizzazione”, la completezza ed integrità della rappresentazione rispetto ai dati precedentemente immessi ed elaborati sul supporto informatico, potendo gli stessi essere agevolmente mascherati, omessi o modificati. L’attività di contraffazione, infatti, consistendo in una attività di manipolazione di dati o segnali ricevuti da un sistema basato sulla immaterialità del supporto di memoria elettronico, può individuarsi già a livello della semplice immissione di dati non genuini.

Diversa dalla ipotesi della formazione di una falsa copia di un atto materialmente inesistente, che viene qui in rilievo, deve ritenersi, invece, quella, più volte esaminata dalla giurisprudenza, della inesistenza giuridica del documento. L’inesistenza si verifica quando non è possibile identificare alcuna fattispecie negoziale, mancando addirittura gli elementi necessari perché si possa avere una figura esteriore di negozio giuridico, come nel caso, ad esempio, dell’atto privo di firma (Sez. 6, n. 2453 del 21/04/1978, dep. 1979, Serafini, Rv. 141389). Il manifestarsi di tale evenienza, infatti, impedendo qualsiasi riconoscibilità dell’atto, non consente di ritenere anche la sussistenza del falso documentale, mentre la nullità o annullabilità, per carenza di un requisito, non esclude l’affidamento, sia pure provvisorio, della pubblica fede. Al riguardo, l’orientamento comunemente seguito ritiene, sulla base di categorie ed istituti di stretta derivazione civilistica, che solo la formale inesistenza (ad es. nell’ipotesi dell’incompetenza assoluta), non già una semplice ipotesi di nullità o annullabilità, comporta l’esclusione della tutela penale nel caso di falsità (Sez. 5, n. 7911 del 22/06/1982, Nicosia, Rv. 155045; Sez. 5, n. 10335 del 07/10/1983, Favuzza, Rv. 161507; Sez. 5, n. 4520 del 19/06/1987, dep. 1988, Salerno, Rv. 178123; Sez. 6, n. 5321 del 22/11/1989, dep. 1990, Coppola, Rv. 183997; Sez. 5, n. 1474 del 20/11/1991, dep. 1992, Goio, Rv. 189087; Sez. 5, n. 11714 del 10/10/1997, Lipizer, Rv. 209271).

Siffatta linea interpretativa, peraltro, è stata criticata dalla dottrina per la sua scarsa incisività nelle ipotesi di inesistenza dell’atto causata dalla stessa condotta di falsificazione (esempio assai frequente è quello della formazione su carta intestata e con falsa sottoscrizione del funzionario competente di un atto in realtà mai emanato): in questi casi, invero, è visibile nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, pur sottolineandosi in linea di principio l’importanza del tradizionale criterio fondato sulla classica distinzione inesistenza-invalidità, uno sforzo volto ad individuare altri criteri giustificativi dell’affermazione di responsabilità, per lo più incentrati sulla pericolosità delle modalità di falsificazione sotto il profilo della tutela dell’affidamento nella genuinità e veridicità del documento. In talune decisioni, infatti, dopo aver richiamato il tradizionale principio dell’irrilevanza penale del falso in atti inesistenti, questa Corte ha precisato che ciò che rileva non è l’effettiva validità del rapporto giuridico documentato, bensì l’apparenza di tale validità (v., in motivazione, Sez. 5, n. 9777 del 06/07/1994, Ferrofino, Rv. 199853; in proposito v., anche, Sez. 5, n. 1474 del 20/11/1991, dep. 1992, Goio, cit., secondo cui per la configurazione del reato non occorre che l’atto, al momento della falsificazione, possa ritenersi valido per istituire o provare un rapporto, bensì che dopo la falsificazione risulti valido a provare la sussistenza, sia pure apparente, nei confronti dei terzi della situazione documentata). Entro tale prospettiva, dunque, abbandonando i consueti schemi concettuali di diretta derivazione civilistica, questa Corte ha progressivamente precisato la sua linea interpretativa ed ha affermato che il problema della rilevanza penale della falsità in atti nulli o annullabili o inesistenti si pone in relazione a vizi, diversi dalla falsità, inerenti all’atto quale appare dopo l’avvenuta falsificazione (Sez. 5, n. 8203 del 20/06/1979, De Filippo, Rv. 143029), precisando (Sez. 5, n. 12091 del 01/04/1987, Rapetti, Rv. 177148) che nel falso materiale in atto pubblico, ed in specie nelle ipotesi di formazione di un atto pubblico falso da parte di un privato, il criterio della invalidità o dell’inesistenza giuridica dell’atto è del tutto inidoneo a segnare il confine della rilevanza penale del falso — quantomeno per le cause di invalidità o di inesistenza determinate dalla falsità stessa — dal momento che la carenza assoluta di potere del privato, causa di inesistenza giuridica dell’atto, è elemento dello stesso reato, che assurdamente non sarebbe mai configurabile. Ciò che conta, dunque, è che l’atto, al momento in cui è posto in essere, sia apparentemente valido, assumendo al riguardo un rilievo decisivo la possibilità, valutata ex ante, della lesione della pubblica fede (v., in motivazione, Sez. 5, n. 13588 del 05/07/1990, Ceccarelli, Rv. 185521, che ha ritenuto l’irrilevanza dell’invalidità del verbale di ricezione della dichiarazione di impugnazione ai fini della punibilità della condotta). Siffatto orientamento, del resto, è stato successivamente avallato anche dalle Sezioni unite (v., in motivazione, Sez. U, n. 32009 del 27/06/2006, Schera, Rv. 234214), le quali hanno affermato che per la configurazione del reato non occorre che l’atto, al momento della sua falsificazione, possa ritenersi valido per istituire o provare un rapporto, bensì che «mercé la falsificazione risulti idoneo a provare la sussistenza sia pure apparente, nei confronti dei terzi, della situazione documentata». 6. Ciò posto, e richiamato il complesso delle considerazioni dianzi svolte, deve rilevarsi come la contraffazione che si realizza mediante la formazione di un atto in realtà inesistente ben possa avvalersi dello strumento materialmente rappresentato dall’utilizzo di una falsa copia, documentando una volontà solo apparente perché non viene in realtà espressa, neppure per simulazione. Nel caso della simulazione, di contro, viene documentata una volontà che è stata effettivamente espressa, anche se con l’intento di evitarne gli effetti giuridici. Il problema della rilevanza della contraffazione attraverso l’utilizzo di una copia si pone quando il soggetto attivo l’abbia direttamente prodotta, discendendo il titolo del reato dalla natura del documento che vi è falsamente rappresentato (se trattasi di atto pubblico, dunque, ex artt. 476-482 cod. pen., se di certificato amministrativo ex artt. 477-482 cod. pen.). Qualora egli avesse alterato una fotocopia che non ha materialmente prodotto, dovrebbe invece rispondere di un diverso reato, ossia del falso in scrittura privata ex art. 485 cod. pen., che nelle more è stato però abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7. 6.1. Uno degli indirizzi ermeneutici in contrasto (inaugurato da Sez. 5, n. 7717 del 17/06/1996, Jacobacci, Rv. 205547 e poi ribadito da Sez. 5, n. 11185 del 05/05/1998, Detti, cit., nonchè da Sez. 5, n. 4406 del 04/03/1999, Pegoraro, cit.) ha affermato, richiamando a tal fine la norma incriminatrice disegnata dall’art. 478 cod. pen., che non sussiste il reato di falso documentale per inesistenza dell’oggetto ex art. 49 cod. pen. quando la falsificazione ha ad oggetto una copia fotostatica, presentata come tale, atteso che quest’ultima non ha, di per sé, valore di documento, e può essere produttiva di effetti giuridici solo se autenticata o non espressamente disconosciuta, secondo quanto previsto dall’art. 477 cod. pen. e dall’art. 2719 cod. civ. Entro tale prospettiva, dunque, si ritiene che la creazione della mera copia fotostatica non integri una falsità punibile, in difetto di una sua autenticazione. Ipotesi diversa, nella quale siffatto orientamento ritiene invece ravvisabile il reato di falso documentale, è quella della riproduzione che, realizzata mediante un fotomontaggio fraudolento e con particolari caratteristiche di forma e di dimensioni, determina, oggettivamente e nell’intenzione dell’agente, l’apparenza di un documento originale, configurando il reato previsto dagli artt. 482 e 476 cod. pen. per la sua sostanziale assimilazione all’alterazione dell’originale del documento. Si è tuttavia osservato, in senso contrario, che nessuna norma processuale richiede la certificazione ufficiale di conformità per l’efficacia probatoria delle copie fotostatiche (Sez. 5, n. 21024 del 28/04/2006, Milioti), atteso che per aversi un documento è sufficiente che la dichiarazione appaia destinata alla prova. L’orientamento richiamato, inoltre, da un lato rischia di sovrapporsi alla peculiare ipotesi di reato disciplinata dall’art. 478 cod. pen., che punisce il falso in copia autenticata, laddove l’ipotesi che viene qui in rilievo investe la mera riproduzione fotostatica non oggetto di autenticazione, dall’altro lato sembra confondere, alla luce dei rilievi al riguardo criticamente formulati dalla dottrina, il problema della falsificabilità del documento-fotocopia con la diversa questione attinente alla contraffazione di un documento mediante la fotocopia, dove la questione dell’autenticazione non assume alcun rilievo. 6.2. Secondo l’impostazione ricostruttiva delineata dal diverso orientamento giurisprudenziale dianzi esaminato (e risalente, in particolare, al tracciato argomentativo delineato da Sez. 5, n. 7566 del 15/04/1999, Domenici, Rv. 213624), la formazione di una copia fotostatica può integrare gli estremi della falsità materiale quando le modalità di utilizzo siano tali da farla apparire come un originale, così traendo in inganno i terzi di buona fede. Nel solco della medesima linea interpretativa, inoltre, si esclude che, a tal fine, possa assumere rilievo l’assenza della attestazione di autenticità, la quale non incide sulla rilevanza penale del fatto allorché il documento abbia l’apparenza di un originale e come tale sia utilizzato, considerato anche il notevole grado di sofisticazione raggiunto dai macchinari che possono essere oggi utilizzati, in quanto capaci di formare copie fedeli all’originale e idonee a consentire un uso in grado di trarre in inganno la pubblica fede (Sez. 5, n. 5401 del 02/12/2004, dep.2005, Polloni, Rv. 231171; Sez. 5, n. 14308 del 19/03/2008, Maresta, Rv. 239490; Sez. 5, n. 8900 del 19/01/2016, Paolini, Rv. 267711). Anche tale indirizzo, peraltro, sembra prestare il fianco ad obiezioni che parte della dottrina ha mosso in relazione a più profili problematici, rilevando che l’utilizzo di una fotocopia non comporta di per sé l’alterazione della paternità, ma determina semmai un inganno, creando in tal modo i presupposti non di una vera e propria falsità, ma, ove tutti gli estremi ne ricorrano, di una condotta truffaldina. Senza esprimere una reale capacità selettiva dell’area di rilevanza penale del falso in fotocopia, tale diversa opzione esegetica rischia, da un lato, di limitare il suo ambito di operatività ad una scontata verifica della natura grossolana del falso – in relazione alla “qualità” della copia -, dall’altro lato, e soprattutto, di trasferire l’accertamento della condotta di falsità materiale su un piano eccentrico rispetto al giudizio di tipicità, rinviando all’utilizzo che in concreto è stato fatto della copia, e così attribuendo rilievo ad un profilo irrilevante nella struttura tipica del fatto. 6.3. Maggiormente condivisibile, sulla base delle considerazioni che verranno di seguito svolte, deve ritenersi, all’interno di tale indirizzo, quel filone interpretativo che meglio ne definisce l’ambito di estensione incentrando la sua attenzione sulle ipotesi in cui la copia di un documento si presenti o venga esibita con caratteristiche tali, di qualsiasi guisa, da voler sembrare un originale, ed averne l’apparenza, ovvero la sua formazione sia idonea e sufficiente a documentare nei confronti dei terzi l’esistenza di un originale conforme: in tal caso la contraffazione si ritiene sanzionabile ex artt. 476 o 477 cod. pen., secondo la natura del documento che mediante la copia viene in realtà falsamente formato o attestato esistente (cfr., in motivazione, Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007, dep. 2008, Favia, Rv. 239112; v., inoltre, Sez. 5, n. 9366 del 22/05/1998, Celestini, Rv. 211443). Siffatta impostazione ricostruttiva poggia, invero, su un criterio di riferimento oggettivo, per cui lo stesso soggetto che produce la copia deve compiere anche un’attività di contraffazione che vada ad incidere materialmente sui tratti caratterizzanti il documento in tal modo prodotto, attribuendogli una parvenza di originalità, così da farlo sembrare, per la presenza di determinati requisiti formali e sostanziali, un provvedimento originale o la copia conforme, originale, di un tale atto ovvero comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente. La volontà di sorprendere la fede pubblica, in tal modo, si realizza attraverso un comportamento ontologicamente inquadrabile nella ipotesi di falso per contraffazione, perché, almeno apparentemente, creativo di un atto originale in realtà inesistente, sì da determinarne oggettivamente, nelle intenzioni dell’agente, un’apparenza esterna di originalità.Entro tale prospettiva, a ben vedere, deve ritenersi indifferente la circostanza di fatto legata alla materiale esistenza o meno dell’atto “originale” rispetto al quale dovrebbe operarsi il raffronto comparativo con la copia, perché l’intervento falsificatorio effettuato con la modalità della contraffazione assume come riferimento non tanto la copia in sé, quanto il falso contenuto dichiarativo o di attestazione apparentemente mostrato dalla natura della copia formata ed esibita dall’agente, laddove l’atto originale non esiste affatto ovvero, se realmente esistente, rimane inalterato e comunque estraneo alla vicenda. 6.4. Al riguardo non si pone, infine, un problema di indebita estensione degli effetti della previsione di cui all’art. 2719 cod. civ. in tema di efficacia delle fotocopie di atti, poiché il richiamato quadro di principii non si fonda affatto sulla norma civilistica ora menzionata, ma sull’individuazione del documento che risulta effettivamente oggetto dell’attività di contraffazione, e del cui inesistente originale la copia è, nell’intenzione dell’agente, destinata a provare artificiosamente l’esistenza. Nell’ipotesi qui considerata, come si è visto, la falsità materiale si concentra sull’esistenza stessa dell’oggetto documentato, ma non investe, nella realtà, un documento pubblico, bensì solo una copia informe. Per le medesime ragioni deve ritenersi infondata la evocata disparità di trattamento a fronte del più severo regime sanzionatorio che deriverebbe, per la ipotesi di contraffazione della copia semplice, rispetto a quella della fotocopia autentica, costituente il meno grave reato di cui all’art. 478 cod. pen.: oggetto reale del delitto di cui all’art. 476 cod. pen. è infatti il documento “originale” del quale viene contraffatta l’esistenza, non una copia dello stesso (cfr. Sez. 5, n. 28723 del 25/05/2015, Barone). Giova richiamare, sotto tale profilo, quanto da questa Corte affermato (Sez. 5, n. 3023 del 23/11/1979, dep. 1980, Caprani, Rv. 144545; Sez. 6, n. 5342 del 10/02/1984, Di Muro, Rv. 164706) in ordine alla struttura della norma contenuta nell’alt 478, primo comma, cod. perì., che punisce la formazione ed il rilascio in forma legale della pretesa copia di un atto inesistente, sicché l’autenticazione del pubblico ufficiale e cioè la falsa attestazione di conformità costituisce un elemento integrativo della fattispecie incriminatrice e non l’autonoma figura delittuosa di cui all’art. 476 cit. Se, di contro, la copia è semplice, essa non può costituire l’oggetto materiale della fattispecie di cui all’art. 478 cod. pen., che contempla, fra l’altro, due ipotesi di falsità in copia autentica (da intendersi, a sua volta, quale atto derivativo e complesso, costituito dalla riproduzione fedele e completa di una dichiarazione contenuta in un documento originale e da una dichiarazione di conformità all’originale resa da un pubblico ufficiale), e segnatamente: a) la formazione della copia autentica di un atto inesistente (simulazione di copia di atto inesistente); b) la formazione della copia autentica di un atto diverso da quello esistente (rilascio di copia diversa dall’originale). Presupposto per l’applicazione di tale fattispecie, che si riferisce alla particolare ipotesi della formazione di una copia autentica, è, dunque, l’inesistenza assoluta di un originale (che non deve essere mai esistito) ovvero l’esistenza di un originale che viene “copiato” in modo difforme, laddove la disposizione contenuta nell’art. 492 cod. pen. si riferisce propriamente alla diversa ipotesi della falsificazione di copie autentiche già formate, a sua volta punibile ai sensi dell’art.476 cod. pen. anche se quelle copie non tengono luogo degli originali mancanti. La falsità dell’atto di autenticazione, infatti, è sempre preceduta, nello schema normativo delineato dall’art. 478 cit., da un’altra falsità che si consuma attraverso la formazione della falsa copia: falsità, questa, la cui natura, come osservato dalla dottrina, è materiale non solo quando viene simulato un atto inesistente, ma anche nell’ipotesi in cui si forma una copia difforme dall’originale, perché il documento- copia, prima dell’autenticazione, non è rappresentativo di alcun atto del suo confezionatore, che possa dirsi ideologicamente falso. 7. In conclusione, la questione posta dall’ordinanza di rimessione va risolta enunciando il seguente principio di diritto: «La formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale».

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