Domanda di arricchimento in subordine a quella di adempimento.

Le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 22404 del 13/9/2018, a risoluzione di contrasto, hanno affermato che è ammissibile la domanda di arricchimento senza causa, proposta in via subordinata con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla stessa vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata.

La questione rimessa all’esame di queste Sezioni Unite consiste nello stabilire “se nel giudizio promosso nei confronti di una Pubblica Amministrazione per l’adempimento di un’obbligazione contrattuale la parte possa modificare la propria domanda in una richiesta di indennizzo per arricchimento senza causa con la memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ.”.

La Corte si è più volte pronunciata sulla questione se la proposizione della domanda di azione di arricchimento costituisca, ove formulata dopo che sia stata proposta azione di adempimento contrattuale, emendatio o mutatio libelli e se e in che termini la proposizione di una tale domanda incorra nelle preclusioni previste dal codice di rito.

Le Sezioni Unite, nel comporre il contrasto di giurisprudenza relativamente alla novità della domanda di indennizzo per arricchimento senza causa rispetto a quella originariamente proposta di adempimento contrattuale, con la sentenza 22 maggio 1996 n. 4712, pronunciata in un giudizio iniziato in primo grado nel 1986 e, quindi, disciplinato dalle norme processuali di cd. vecchio rito, anteriori cioè alle modifiche di cui alla legge 26 novembre 1990 n. 353, hanno affermato che la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa integra, rispetto a quella di adempimento contrattuale originariamente formulata, una domanda nuova – come tale inammissibile a norma dell’art. 184 cod. proc. civ. in difetto di accettazione del contraddittorio -, in quanto dette domande non sono intercambiabili e non costituiscono articolazioni di un’unica matrice, riguardando entrambe diritti cosiddetti “eterodeterminati” (per l’individuazione dei quali è indispensabile il riferimento ai relativi fatti costitutivi, che divergono sensibilmente tra loro ed identificano due distinte entità), e l’attore, sostituendo la prima alla seconda, non solo chiede un bene giuridico diverso (indennizzo, anziché il corrispettivo pattuito), così mutando l’originario petitum, ma, soprattutto, introduce nel processo gli elementi costitutivi della nuova situazione giuridica (proprio impoverimento ed altrui locupletazione e, in caso di domanda di arricchimento proposta contro la P.A., anche il riconoscimento della utilitas della prestazione), che erano privi di rilievo, invece, nel rapporto contrattuale (in senso v. pure Cass.29/09/1997, n. 9507; Cass. 29/01/1998, n. 915; Cass. 6/10/1999, n. 11123; Cass. 12/06/2000, n. 7979; Cass. 20/12/2001, n. 16063; Cess. 27/11/2001, n. 15028; Cass. 29/03/2001, n. 4612; Cass.24/10/2003, n. 16005; Cass. 11/05/2003, n. 7378; Cass. 2/12/2004, n. 22667; Cass. 26/05/2004, n. 10168; Cass. 2/08/2007 n. 17007).

Con sentenza 27/12/2010, n. 26128, queste Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi in tema della proponibilità, da parte dell’opposto, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, della domanda di ingiustificato arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 c.c., quale domanda riconvenzionale, in considerazione della sua posizione sostanziale di attore, e non di convenuto, nel giudizio conseguente all’opposizione, hanno affermato il principio così massimato: «Le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa, quali azioni che riguardano entrambe diritti eterodeterminati, si differenziano, strutturalmente e tipologicamente, sia quanto alla causa petendí (esclusivamente nella seconda rilevando come fatti costitutivi la presenza e l’entità del proprio impoverimento e dell’altrui locupletazione, nonché, ove l’arricchito sia una P.A., il riconoscimento dell’utílitas da parte dell’ente), sia quanto al petítum (pagamento del corrispettivo pattuito o indennizzo). Ne consegue che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo – al quale si devono applicare le norme del rito ordinario, ai sensi dell’art. 645, secondo comma, e, dunque, anche l’art. 183, quinto comma, cod. proc. civ. – è ammissibile la domanda di arricchimento senza causa avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall’opposto (che riveste la posizione sostanziale di attore) soltanto qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine, tale che possa giustificare l’esame di una situazione di arricchimento senza causa. In ogni altro caso, all’opposto non è consentito di proporre, neppure in via subordinata, nella comparsa di risposta o successivamente, un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui inammissibilità è rilevabile d’ufficio dal giudice». Il percorso argomentativo seguito da queste Sezioni Unite nella sentenza in parola, richiamata pure nell’ordinanza interlocutoria n. 7079 del 2017 della Seconda Sezione, può così sinteticamente schematizzarsi: a) le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa sono strutturalmente e tipologicamente diverse, integrando, quest’ultima, rispetto a quella originariamente formulata, una domanda nuova; b) tali domande differiscono quanto al petitum, costituito nella prima dal pagamento del corrispettivo pattuito e nella seconda dall’indennizzo, e quanto alla causa petendi, essendo estranei all’azione contrattuale gli elementi dell’impoverimento e dell’altrui locupletazione, che costituiscono i presupposti dell’azione generale di arricchimento (si evidenzia che la pronunzia in parola richiama anche l’ulteriore presupposto dell’utilitas da parte dell’ente, la cui natura di elemento integrativo dell’azione di arricchimento è stata successivamente esclusa dalla sentenza delle Sezioni Unite del 26 maggio 2015, n. 10798); c) si tratta, quindi, di domande non intercambiabili e che non «costituiscono articolazioni di un’unica matrice», poiché i fatti costitutivi che rispettivamente le individuano «identificano due distinte entità, nessuna delle quali può dirsi potenzialmente contenente l’altra e potenzialmente in essa contenuta», d) nel passaggio dall’una all’altra azione in parola non può parlarsi di semplice emendatio libelli, ma di vera e propria mutatio, consentita all’attore nei limiti fissati dal quinto comma dell’art. 183 cod. proc. civ.; e) tali limiti ineriscono anzitutto alla fase della formazione del thema decidendum, consentendo la modifica della domanda originaria soltanto come conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, il quale abbia così introdotto nel giudizio un nuovo tema di indagine; f) vi sono altresì limiti temporali per l’esercizio di tale facoltà, che deve ritenersi consentito nell’udienza fissata per la comparizione delle parti e la trattazione, perché questa rappresenta il primo atto difensivo utile, in quanto temporalmente successivo a quello che ne determina la proponibilità; nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il limite temporale preclusivo alla proponibilità della domanda di arricchimento senza causa deve farsi risalire alla comparsa di costituzione e risposta dell’opposto, che è il primo atto difensivo di quest’ultimo, a seguito delle difese contenute nell’atto di opposizione a di. dell’opponente; g) al di fuori di tali ristretti termini, la domanda di ingiustificato arricchimento non può essere proposta nel giudizio originato da un’azione contrattuale e la sua tardiva proposizione è soggetta al rilievo officioso, indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte, in quanto il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario riformato – applicabile anche nel giudizio di opposizione a d.i. – è finalizzato a tutelare non solo l’interesse di parte ma anche l’interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo. 5. Con la sentenza n. 12310 del 15 giugno 2015, queste Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto sulla questione relativa alla modificabilità, con la memoria prevista dal quinto comma dell’art. 183 cod. proc. civ. (nella formulazione ratione temporis applicabile), della domanda costitutiva ex art. 2932 c.c. in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo), hanno affrontato in termini più generali il tema dello ius variandi, operando un’ampia rivisitazione dello stesso alla luce dei mutamenti del quadro normativo di riferimento ad opera del legislatore – anche costituzionale – e dei corrispondenti mutamenti nella giurisprudenza di legittimità, soprattutto a Sezioni Unite (pure se non specificamente riferibili alla problematica da esaminare in quella sede) riguardanti, in una prospettiva più generale, non solo la disciplina dei nova nel processo ma anche le problematiche ad essa collegate, «nella consapevolezza che l’esegesi della normativa processuale deve sempre salvaguardare la coerenza circolare del sistema e che l’intervento nomofilattico compositivo è necessario quante volte occorra riportare a sintesi univoca e manifesta il tormentato processo di adeguamento della ermeneutica giuridica al contesto legislativo e culturale in trasformazione». La sentenza muove da una ricognizione della struttura dell’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ. evidenziando che, in relazione all’esercizio dello ius variandi, la giurisprudenza afferma il tradizionale principio secondo il quale sono ammissibili solo le modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono semplice emendatio libelli, ravvisabile quando non si incide né sulla causa petendi né sul petitum, mentre sono assolutamente inammissibili quelle modificazioni della domanda che costituiscono mutatio libelli, ravvisabile quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su di un fatto costitutivo differente, così ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo. Si sottolinea nella sentenza in parola che tale principio è però solo in apparenza uniformemente applicato, in quanto sottende una realtà più frastagliata in relazione a diverse fattispecie, in base ad “una logica del caso per caso”. Nella medesima sentenza si evidenzia poi che non è dato rinvenire un esplicito divieto di domande nuove nell’ambito dell’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ. paragonabile a quello espresso nell’art. 345 cod. proc. civ., per il giudizio di appello, e che l’art.189 cod. proc. civ., in tema di rimessione della causa al collegio,prevede che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183», in tal modo ribadendo, ove vi fossero dubbi, che a norma dell’art. 183 cod. proc. civ. le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell’atto introduttivo in maniera sensibilmente apprezzabile (quindi non limitata a mere qualificazioni giuridiche o precisazioni di dettaglio). Al fine di una maggiore comprensione della effettiva portata del cambiamento ammissibile ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., nella sentenza de qua si osserva che, in rapporto alla domanda originaria, nell’economia della suddetta norma risultano previsti altri tre tipi di domande: le domande “nuove”, le domande “precisate” e le domande “modificate”. Si evidenzia, con riguardo alle domande “nuove”, che, pur non riscontrandosi un espresso divieto come quello di cui all’art.345 cod. proc. civ., questo può essere implicitamente desunto dal fatto che risultano specificamente ammesse per l’attore le domande e le eccezioni «che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto», ben potendo l’affermazione suddetta leggersi nel senso che sono (implicitamente) vietate tutte le domande nuove ad eccezione di quelle che per l’attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto. Si afferma che domande “precisate” sono le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni nei loro elementi identificativi, ma semplici precisazioni, per tali intendendosi tutti quegli interventi che non incidono sulla sostanza della domanda iniziale ma servono a meglio definirla, puntualizzarla, circostanziarla, chiarirla. Si specifica che «la vera differenza tra le domande “nuove” implicitamente vietate e le domande “modificate” espressamente ammesse non sta … nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non ossono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali-, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività». Si rimarca che, «con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio». La sentenza n. 12310 del 2015 perviene quindi, alle seguenti conclusioni: a) la modifica della domanda iniziale può riguardare anche gli elementi identificativi oggettivi della stessa, a condizione che essa riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque sia a questa collegata, regola, questa, ricavabile da tutte le indicazioni contenute nel codice di rito in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo e in particolare al rapporto di connessione per “alternatività” o “per incompatibilità”; b) una siffatta interpretazione risulta maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, posto che, non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma determina, anzi, una indubbia incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia, in quanto è idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto, invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi, c) la concentrazione favorita da tale interpretazione risulta inoltre maggiormente rispettosa della stabilità delle decisioni giudiziarie, anche in relazione alla limitazione del rischio di giudicati contrastanti, nonché della effettività della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da pronunce meramente formalistiche; d) una simile interpretazione non determina alcuna “sorpresa” per la controparte né ne mortifica le potenzialità difensive, in quanto l’eventuale modifica avviene sempre in riferimento e in connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio e a tale parte è, in ogni caso, assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio. Conclusivamente, con la sentenza in parola, è stato espressamente affermato il seguente principio di diritto: «La modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile la modifica, nella memoria all’uopo prevista dall’art. 183 cod. proc. civ., della iniziale domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo». 6. Il principio appena riportato risulta essere stato ribadito da successive decisioni di legittimità, con riferimento ad un variegato ambito oggettivo, non circoscritto al solo diritto contrattuale, pur se talvolta esso è stato richiamato a conforto di una decisione la cui ratio non collima del tutto con le indicazioni interpretative offerte dalla richiamata pronuncia del 2015 e si conforma, in realtà, a convincimenti già acquisiti da tempo. Al riguardo si fa riferimento, a mero titolo esemplificativo, in tema di modificazione della domanda da parte dell’attore nel giudizio regolato dal cd. rito societario, alla decisione di questa Corte del 3 gennaio 2017, n. 29, in cui si afferma che, nel rito societario già disciplinato dal d.lgs. n. 5 del 2003, le domande nuove che l’attore può proporre ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), devono essere conseguenza “delle difese proposte dal convenuto”, in tale ampia espressione dovendosi ricomprendere ogni possibile deduzione difensiva di quest’ultimo, eí quindi, non solo le eccezioni, in senso stretto o lato, ma anche le mere difese. In senso sostanzialmente conforme si è espressa la sentenza di questa S.C. del 19 gennaio 2016, n. 816, secondo cui nel rito societario già disciplinato dal d.lgs. n. 5 del 2003, la modificazione della domanda, ivi consentita tramite la memoria ex art. 6, può riguardare anche uno o entrambi i suoi elementi oggettivi (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in lite o sia ad essa collegata, sicché, qualora la parte abbia chiesto, con l’atto di citazione, l’accertamento della nullità di un contratto di intermediazione finanziaria, è ammissibile la proposizione, con la suddetta memoria, della domanda di risarcimento del danno, ove, in particolare, non siano mutati gli elementi di fatto introdotti in giudizio. In tema di mutamento quantitativo della domanda originaria, si richiama pure la sentenza di questa Corte. n. 26782 del 22 dicembre 2016, con la quale è stato affermato che la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, per ciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali. (In aOplicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato inammissibile il mutamento quantitativo della domanda riconvenzionale proposta dall’opponente a decreto ingiuntivo e riconnessa all’intervenuta rescissione del contratto rispetto alla precedente domanda di risoluzione, trovando la richiesta del riconoscimento di un maggiore importo fondamento nella medesima situazione sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo). In punto di ammissibilità della domanda di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., formulata dopo un’iniziale domanda risarcitoria fondata sulla violazione del generale dovere del neminem laedere di cui all’art. 2043 cod. civ., si è altresì espressa questa Corte con la sentenza n. 10513 del 17 marzo 2017, applicando argomentatamente il principio espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12310 del 2015.

Ritiene il Collegio che va data continuità all’indirizzo indicato con la sentenza di queste Sezioni Unite n. 12310 del 2015, per la valenza sistematica, in tema di esercizio dello ius variandi nel corso del processo, della decisione da ultimo richiamata, che, superando in senso evolutivo il precedente criterio della differenziazione di petitum e causa petendi su cui si basava il precedente orientamento cui pure si è fatto riferimento, sposta l’attenzione dell’interprete dall’ambito circoscritto di una valutazione relativa alla invarianza degli elementi oggettivi (petitum e causa petendi) della domanda modificata rispetto a quella iniziale, in una prospettiva di più ampio respiro, volta alla verifica che entrambe tali domande ineriscano alla medesima vicenda sostanziale sottoposta all’esame del giudice e rispetto alla quale la domanda modificata sia più confacente all’interesse della parte. Milita in tal senso, altresì, la considerazione che l’interpretazione adottata in questa sede risulta maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, in quanto non solo incide sulla durata del processo in cui la modificazione interviene ma influisce positivamente anche sui tempi della giustizia in generale, in quanto favorisce la soluzione della complessiva vicenda sostanziale sottoposta all’esame del giudice in un unico contesto, evitando la proliferazione dei processi.

Occorre, pertanto, verificare se, come pure evidenziato dal Collegio rimettente, la domanda di arricchimento senza causa, come proposta nel giudizio all’esame con la memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., sia riconducibile alla nozione di “domanda modificata” ritenuta ammissibile con la sentenza n. 12310 del 2015. Al riguardo si osserva che va accertato se, tra la domanda inizialmente proposta e quella poi successivamente formulata con la memoria ex art. 183, comma sesto, cod. proc. civ., sussista quel rapporto di connessione per “alternatività” od “incompatibilità” cui si fa riferimento in quella decisione. Nella specie, entrambe le domande proposte (di adempimento contrattuale e di indebito arricchimento) si riferiscono indubbiamente alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, intesa come unica vicenda in fatto che delinea un interesse sostanziale; sono attinenti al medesimo bene della vita, tendenzialmente inquadrabile in una pretesa di contenuto patrimoniale (pur se, nell’una, come corrispettivo di una prestazione svolta e, nell’altra, come indennizzo volto alla reintegrazione dell’equilibrio preesistente tra i patrimoni dei soggetti coinvolti); sono legate da un rapporto di connessione “di incompatibilità”, non solo logica ma addirittura normativamente prevista, stante il carattere sussidiario dell’azione di arricchimento, ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., e tale nesso giustifica ancor di più il ricorso al simultaneus processus.

La Corte fissa pertanto il seguente principio di diritto: «È ammissibile la domanda di arricchimento senza causa ex art. 2041 cod. civ. proposta, in via subordinata, con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata».

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