Società tra avvocati e altri professionisti all’esame delle Sezioni Unite

La Cassazione con la sentenza delle Sezioni Unite n. 19282 del 19.7.2018 si è pronunciata su un tema caro a tanti avvocati e cioè se e come possa essere costituita una società multidisciplinare. Qui il link per leggere la motivazione sul sito della Cassazione.

La Corte svolge un breve excursus dell’evoluzione legislativa in materia di esercizio in forma associata della professione di avvocato.

L’esercizio in comune dell’attività professionale fu regolamentato per la prima volta con la legge 23.11.1939, n. 1815, che consentiva l’esercizio in forma associata della professione da parte di persone abilitate, ma con l’obbligo di utilizzare esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario” seguita dal nome e cognome e dai titoli professionali dei singoli associati (art. 1); ogni diversa forma di esercizio associato di attività professionale era vietato (art. 2). Il divieto venne meno soltanto nel 1997 con l’abrogazione dell’art. 2 della legge n. 1815 del 1939 da parte dell’art. 24, comma 1, della legge 7.8.1997, n. 266, che al comma successivo rinviava la regolamentazione della materia ad un successivo decreto ministeriale, mai emanato (con conseguente permanente incertezza sul modello societario utilizzabile).

L’intera legge n. 1815 del 1939 è stata definitivamente abrogata soltanto dall’art. 10, comma 11, della legge n. 183 del 2011, ma prima di allora a disciplinare le società tra avvocati (e non quelle fra altri professionisti) è intervenuto il titolo II del d.lgs. 2.2.2001, n. 96, di attuazione della direttiva comunitaria 98/5/CE, che all’art. 16 dispone: «L’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio può essere esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti, denominata nel seguito società tra avvocati». Il relativo modello societario è regolato dalle norme sulla società in nome collettivo di cui al capo III del titolo V del libro V del codice civile. In sintesi, la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 96 del 2001 prevede che la società tra avvocati abbia quale oggetto esclusivo l’esercizio in comune della professione da parte dei propri soci (art. 17), tutti necessariamente in possesso del titolo di avvocato (art. 21, R.G. n. 2927/17 comma 1); la società deve essere iscritta nel registro delle imprese (nella sezione speciale relativa alle società tra professionisti, con funzione di pubblicità notizia) e all’albo degli avvocati, nell’apposita sezione speciale (artt. 16 e 27); la ragione sociale deve contenere l’indicazione di “società tra avvocati” (nota anche con l’acronimo STA); la partecipazione ad una STA è incompatibile con la partecipazione ad altra STA (art. 21, comma 2); l’amministrazione spetta ai soci (a ciascuno di essi disgiuntamente dagli altri, fatta salva eventuale diversa pattuizione) e non può essere affidata a terzi (art. 23); non è soggetta a fallimento (art. 16, comma 3); ai sensi dell’art. 24, comma 1, l’incarico professionale conferito alla società tra avvocati può essere eseguito solo da uno o più soci in possesso dei requisiti per l’esercizio dell’attività professionale richiesta; secondo l’art. 26, comma 1, il socio o i soci incaricati sono personalmente e illimitatamente responsabili per l’attività professionale svolta in esecuzione dell’incarico, mentre la società risponde con il suo patrimonio; è sancita anche la responsabilità disciplinare della società (ai sensi dell’art. 30 essa risponde delle violazioni delle norme professionali e deontologiche applicabili all’esercizio in forma individuale della professione forense; se la violazione commessa dal socio è ricollegabile a direttive impartite dalla società, la responsabilità disciplinare del socio concorre con quella della società). Qualche anno dopo, il d.l. 4.7.2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4.8.2006, n. 248, ha eliminato in linea generale il divieto di esercizio professionale di tipo interdisciplinare stabilendo (art. 2, comma 1) che «In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: (…) c) il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità.».

La possibilità di costituire società di persone multidisciplinari è stata poi confermata, sempre in via generale (cioè non con specifico riferimento agli avvocati), dall’art. 10, comma 8, della legge n. 183 del 2011 – modificato dal d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27.

Lo stesso articolo ha poi introdotto ulteriori novità nell’intento di favorire la liberalizzazione del fenomeno delle società tra professionisti. Il comma 3 consente «la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dal titolo V e VI de/libro V del codice civile», vale a dire anche secondo i modelli delle società di capitali o cooperative di professionisti con almeno tre soci. Il comma 4 dispone che possono assumere la qualifica di “società tra professionisti” (nota anche con l’acronimo STP) le società il cui atto costitutivo preveda, tra l’altro, l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci (lett. a), l’ammissione in qualità di soci dei soli professionisti iscritti ad ordini, albi e collegi, anche in differenti sezioni, nonché dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, purché in possesso del titolo di studio abilitante, ovvero di soggetti non professionisti soltanto per prestazioni tecniche o per finalità di investimento, ma in ogni caso il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci (lett. b). Sempre il citato comma 4 prevede che l’esecuzione dell’incarico professionale sia curata solo dai soci in possesso dei requisiti per l’esercizio della prestazione professionale richiesta (lett. c). Il comma 5 dispone che la denominazione sociale deve comunque contenere l’indicazione di “società tra professionisti”. Il comma 6 stabilisce l’incompatibilità in caso di partecipazione del socio a più STP. Il comma 7 ribadisce l’obbligo dell’osservanza del codice deontologico del proprio ordine da parte dei soci professionisti e la soggezione della STP al regime disciplinare dell’ordine al quale risulta iscritta. Tuttavia il comma 9 del cit. art. 10 contiene una clausola di salvaguardia che ha determinato le incertezze interpretative che sono alla base del presente giudizio: «Restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge.». E fra tali modelli societari vi è anche quello delineato, specificamente per la professione forense, dagli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 96 del 2001. La citata legge n. 183 del 2011 si è limitata a dettare disposizioni di principio, demandando (art. 10, comma 10) l’attuazione delle materie non direttamente da essa disciplinate – ossia quelle di cui ai commi 4, lett. c), 6 e 7) – ad un regolamento da adottarsi dal Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico (tale disciplina attuativa è contenuta nel d.m. 8.2.2013, n. 34).

Nelle more dell’emanazione del decreto ministeriale è intervenuta la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, la legge n. 247 del 2012, poi modificata – per gli aspetti che in questa sede interessano – dall’art. 1, comma 141, della legge 4 agosto 2017, n. 124 (v. meglio infra). Nella sua formulazione originaria la nuova legge professionale si limitava, all’art. 4, a prevedere che la professione forense potesse essere esercitata individualmente o con la partecipazione ad associazioni tra avvocati, demandando al Governo, con la disposizione delegante contenuta nel successivo art. 5, la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma societaria nel rispetto di principi e criteri direttivi fra i quali annoverava il principio secondo cui l’esercizio della professione forense in forma societaria sarebbe stato consentito esclusivamente a società di persone, società di capitali o società cooperative, i cui soci fossero avvocati iscritti all’albo. Restava, quindi, esclusa la partecipazione di soci di mero investimento o di soci non abilitati all’esercizio della professione forense. Inoltre, sempre il cit. art. 5 inseriva tra i principi e i criteri direttivi della delega anche la previsione che alla società tra avvocati si applicassero, in quanto compatibili, le disposizioni sull’esercizio della professione di avvocato in forma societaria di cui al summenzionato d.lgs. n. 96 del 2001. In tal modo ne confermava espressamente la vigenza, consentendo di superare i dubbi a riguardo derivanti dall’art. 2, comma 1, del cit. dl. 4.7.2006, n. 223, che – con disposizione generale valevole per tutte le libere professioni – aveva abrogato il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipointerdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti. Infine, l’art. 1, comma 141, della legge 4 agosto 2017, n. 124, al dichiarato scopo di garantire una maggiore concorrenzialità nell’ambito della professione forense, ha modificato le previsioni della legge di riforma dell’ordinamento forense n. 247 del 2012 sulle associazioni tra avvocati e multidisciplinari di cui all’art. 4 (eliminando il limite della partecipazione dell’avvocato ad una sola associazione) e, previa abrogazione espressa del cit. art. 5 della legge professionale (che, come detto, conteneva la delega legislativa al Governo per la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma societaria, delega poi scaduta), ha nuovamente modificato la disciplina dell’esercizio in forma societaria della professione forense inserendo nella legge n. 247 del 2012 l’art. 4-bis. Quest’ultimo conferma l’ammissibilità delle società di persone, di capitali o cooperative iscritte in un’apposita sezione speciale dell’albo tenuto dall’ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società; vieta la partecipazione societaria tramite società fiduciarie, trust o per interposta persona (comma 1) e, al comma 2, lett. a), prevede che «i soci, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, devono essere avvocati iscritti all’albo, ovvero avvocati iscritti all’albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni; il venire meno di tale condizione costituisce causa di scioglimento della società e il consiglio dell’ordine presso il quale è iscritta la società procede alla cancellazione della stessa dall’albo, salvo che la società non abbia provveduto a ristabilire la prevalenza dei soci professionisti nel termine perentorio di sei mesi». Si prevede poi che la maggioranza dei membri dell’organo di gestione debba essere composta da soci avvocati (lett. b) e che i componenti dell’organo di gestione non possano essere estranei alla compagine sociale; i soci professionisti possono rivestire la carica di amministratori (lett. c). Il comma 3 dispone che, anche nel caso di esercizio della professione forense in forma societaria, resta fermo il principio della personalità della prestazione professionale. L’incarico può essere svolto soltanto da soci professionisti in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della specifica prestazione professionale richiesta dal cliente, i quali assicurano per tutta la durata dell’incarico la piena indipendenza e imparzialità, dichiarando iniziali o sopravvenuti conflitti di interesse o casi di incompatibilità. Il comma 4 ribadisce il concorso della responsabilità della società r\ e dei soci con quella del professionista che ha eseguito la specifica prestazione. Il comma 5 dispone che la sospensione, cancellazione o radiazione del socio dall’albo costituisce causa di esclusione dalla società. Il comma 6 ribadisce, infine, che le società sono in ogni caso tenute al rispetto del codice deontologico forense e sono soggette alla competenza disciplinare dell’ordine di appartenenza.

Così ricostruita l’evoluzione normativa in materia, osserva la Suprema Corte che il rigetto dell’istanza di iscrizione dello Studio Legale F.F…………Società Professionale in accomandita semplice degli avvocati Francesco e Filippo ………. & C. non è predicabile in base all’asserita sopravvivenza dispositiva (sostenuta nella sentenza impugnata) del principio contenuto nell’art. 5 della legge n. 247 del 2012 (consentire l’esercizio della professione forense in forma societaria soltanto a società i cui soci siano avvocati iscritti all’albo) e ciò in virtù dell’assorbente rilievo che si tratta di norma ormai espressamente abrogata – come si è ricordato – dall’art. 1, comma 141, della legge 4.8.17.2017, n. 124. Tale espressa abrogazione supera la rilevanza di ogni ulteriore discorso – che ha impegnato e impegna tuttora la dottrina costituzionalistica – relativo agli effetti producibili dai principi direttivi (non anche dai criteri) contenuti nella legge delega pur a fronte di vana scadenza del termine di esercizio della delega stessa. Riepilogando, con l’entrata in vigore dell’art. 10 legge n. 183 del 2011 e, in particolare, della clausola di salvaguardia contenuta nel relativo comma 9, in tema di società tra professionisti si era determinata la coeva vigenza di due differenti cornici di riferimento, una generale e una speciale. La prima era contenuta nel comma 4 dell’art. 10 legge n. 183 del 2011, che prevede la possibilità di costituire società, anche di capitali, fra professionisti (in genere) e soci non professionisti (sia pure con alcune peculiari disposizioni concernenti i rapporti fra di essi, le maggioranze all’interno della società e l’esercizio dell’attività professionale con i relativi obblighi deontologici). Tale è la disposizione normativa su cui si basa la richiesta di iscrizione all’albo avanzata da parte ricorrente. La seconda cornice di riferimento era quella di cui al cit. d.lgs. n. 96 del 2001, riferita ai soli avvocati (e non anche ad altri professionisti) e ritenuta ancora vigente grazie alla clausola di salvaguardia contenuta nel comma 9 dello stesso art. 10 legge n. 183 del 2011 («Restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge.»). La dizione legislativa era, dunque, chiara nel fare salvi i «modelli societari» (non semplicemente le società) già in vigore e, quindi, anche quelli di cui al d.lgs. n. 96 del 2001. La più restrittiva esegesi suggerita in sede di discussione da parte ricorrente – secondo cui tale clausola di salvaguardia avrebbe avuto l’unico scopo di garantire la validità delle società già costituite, escludendo la possibilità di costituirne di nuove secondo lo schema predisposto dal d.igs. n. 96 del 2001 – non solo collide con il tenore testuale della norma (là dove parla di «modelli societari» e non semplicemente di società), ma soprattutto trascura che non vi sarebbe stato alcun bisogno di specificare la perdurante validità delle società già costituite sotto il vigore del suddetto d.lgs. n. 96. Infatti, non esistono nel nostro ordinamento casi di c.d. nullità successiva, ossia nullità conseguente a norme che, in deroga al principio generale secondo cui i requisiti di validità del negozio devono esistere nel momento in cui lo stesso viene posto in essere, stabiliscano – invece – che i requisiti essenziali debbano esistere alla stregua della legge vigente non solo nel momento genetico, ma anche in quello di produzione degli effetti. Né con tale figura possono confondersi i casi disciplinati dagli artt. 687, 800, 801 e 803 (revocazione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni) o dagli artt. 610, 615 e 618 c.c. (in tema di testamenti nelle forme speciali), che più esattamente attengono ad ipotesi di mera inefficacia sopravvenuta. Ciò detto, la perdurante validità dei modelli societari di cui agli artt. 16 e ss. d.lgs. n. 96 del 2001 teoricamente poteva dare luogo a due ipotesi ermeneutiche alternative fra loro: a) pur dopo l’art. 10 legge n. 183 del 2011 l’unico tipo di società tra avvocati sarebbe stato quello di cui alla lex specialis contenuta nel citato d.lgs. n. 96 del 2001 (in tal senso era orientata la prevalente dottrina); b) oltre a tale tipo di società (note con l’acronimo STA) disciplinato dal cit. d.lgs. n. 96 del 2001, gli avvocati avrebbero potuto altresì costituire società tra professionisti (note con l’acronimo STP) ai sensi dell’art. 10 legge n. 183 del 2011 e, quindi, società anche di capitali, multidisciplinari e con la presenza di professionisti iscritti in altri albi o di soci di capitale (opinione – questa – di altra autorevole, seppur sostanzialmente isolata, voce di dottrina). Osserva questa Suprema Corte che, in realtà, l’avverbio «esclusivamente», contenuto nel cit. art. 16 d.lgs. n. 96 del 2001, non consentiva per gli avvocati un concorso in via elettiva di entrambi i modelli societari che evitasse il conflitto tra le due norme (art. 16 cit. e art. 10 legge n. 183 del 2011). Tale conclusione era avvalorata anche dal cit. art. 5 legge n. 247 del 2012 e dall’art. 19 legge 21.12.1999, n. 526, norme contenenti delega legislativa al Governo per la regolamentazione dell’esercizio in forma societaria della professione forense con la fissazione del principio direttivo di esclusione dalla compagine sociale di soci non avvocati. Pertanto, in virtù del principio regolatore del conflitto di norme di pari rango secondo il quale lex posterior generalis non derogat priori speciali, doveva necessariamente darsi prevalenza al capo a) dell’alternativa che precede, ossia alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 96 del 2001, con conseguente divieto di STP tra avvocati regolate dall’art. 10 legge n. 183 del 2011. Ma, dopo l’ordinanza interlocutoria n. 15278 del 20.6.2017, i termini della questione sono mutati grazie all’avvento dell’art. 4-bis della legge n. 247 del 2012 (articolo inserito ad opera dell’art. 1, comma 141, legge n. 124 del 2017 e poi ulteriormente integrato dalla legge n. 205 del 2017), espressamente dedicato all’esercizio della professione forense in forma societaria, che – come sopra anticipato – dettando una compiuta e speciale disciplina delle società tra avvocati, esplicitamente al comma 2 consente anche la partecipazione di soci non avvocati seppur in misura non superiore ad un terzo del capitale sociale.

In conclusione, prima del cit. art. 4-bis, unico consentito modello societario tra avvocati era quello di cui agli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 96 del 2001.

Oggi, invece, il carattere anch’esso speciale dell’art. 4-bis della legge professionale degli avvocati fa sì che tale nuova disciplina prevalga sulla (anteriore e) generale disposizione dell’art. 10 legge n. 183 del 2011 e sulla parimenti speciale, ma anteriore, disciplina di cui agli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 96 del 2001.

La nullità della società in oggetto per contrasto con norme imperative, ossia con gli artt. 16 e ss. d.lgs. n. 96 del 2001, in vigore al tempo della sua costituzione, non pregiudica l’efficacia degli atti da essa compiuti e ciò vuoi in forza dell’art. 20, comma 2, stesso d.lgs., vuoi in forza della giurisprudenza di questa S.C. (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 9124/15) secondo cui anche la nullità del contratto costitutivo di una società di persone è equiparabile, quoad effectum, al suo scioglimento. Nondimeno, lo ius superveniens di cui al cit. art. 4-bis in tema di esercizio in forma associata della professione forense, introducendo la nuova disciplina d’un rapporto sociale ancora in corso, va applicato anche d’ufficio in questa sede (gli unici limiti all’applicazione d’uno ius superveniens nel giudizio di legittimità, che però non vengono in rilievo nel caso di specie, sono quelli del rispetto di eventuali giudicati interni e del divieto di reformatio in peius). Di conseguenza, si pone la necessità di accertare se, in concreto, i connotati della società ricorrente siano compatibili con detto ius superveniens, accertamento cui provvederà il giudice di rinvio.

In conclusione, accolto il secondo motivo di ricorso e rigettato il primo, si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio al CNF affinché – sempre in sede giurisdizionale, ma in diversa composizione – accerti in concreto la compatibilità della società in oggetto con il modello societario delineato dal cit. art. 4-bis della legge n. 247 del 2012, attenendosi al seguente principio di diritto: «Dall’1.1.2018 l’esercizio in forma associata della professione forense è regolato dall’art. 4-bis della legge n. 247 del 2012 (inserito dall’art. 1, comma 141, legge n. 124 del 2017 e poi ulteriormente integrato dalla legge n. 205 del 2017), che – sostituendo la previgente disciplina contenuta negli artt. 16 e ss. d.lgs. n. 96 del 2001 – consente la costituzione di società di persone, di capitali o cooperative i cui soci siano, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, avvocati iscritti all’albo, ovvero avvocati iscritti all’albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni, società il cui organo di gestione deve essere costituito solo da soci e, nella sua maggioranza, da soci avvocati.».

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